Quando è ammesso il demansionamento del lavoratore?
L'art. 2103 c.c. stabilisce che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione.
Il datore di lavoro, quindi, non può né utilizzare un lavoratore in mansioni superiori senza riconoscergli un adeguamento retributivo né assegnargli mansioni inferiori (cd. jus variandi in peius) a quelle inizialmente stabilite o successivamente acquisite: un demansionamento comporta infatti per il lavoratore un danno alla sua professionalità, un conseguente peggioramento del suo valore nel mercato del lavoro e spesso anche un danno alla sua salute psicofisica.
Esiste però un'eccezione. Nella sentenza n. 2375 del 7 febbraio 2005 la Sezione lavoro della Corte di cassazione ha stabilito la liceità di un accordo di demansionamento tra datore di lavoro e lavoratore che sia finalizzato ad evitarne il licenziamento; è dunque possibile un accordo che, ai soli fini di evitare un licenziamento, attribuisca al lavoratore mansioni (e conseguente retribuzione) inferiori a quelle per le quali era stato assunto o che aveva successivamente acquisito.
La sentenza della Suprema Corte si fonda sul principio di "tutela dell'interesse prevalente", secondo cui l'interesse del lavoratore a mantenere il proprio posto di lavoro è prevalente su quello tutelato dall'art. 2103 c.c. Ma perché il patto di demansionamento sia valido, spiegano sempre i giudici, non è sufficiente né che la richiesta di accordo provenga dal lavoratore (il quale, in questo modo, non "subisce" il demansionamento, ma anzi se lo auspica) né che il patto di demansionamento si sia instaurato sulla base di un generico rischio di licenziamento. Occorre anche provare l'esistenza delle condizioni che avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza di accordo, e tale prova spetta al datore di lavoro.
Il datore di lavoro, quindi, non può né utilizzare un lavoratore in mansioni superiori senza riconoscergli un adeguamento retributivo né assegnargli mansioni inferiori (cd. jus variandi in peius) a quelle inizialmente stabilite o successivamente acquisite: un demansionamento comporta infatti per il lavoratore un danno alla sua professionalità, un conseguente peggioramento del suo valore nel mercato del lavoro e spesso anche un danno alla sua salute psicofisica.
Esiste però un'eccezione. Nella sentenza n. 2375 del 7 febbraio 2005 la Sezione lavoro della Corte di cassazione ha stabilito la liceità di un accordo di demansionamento tra datore di lavoro e lavoratore che sia finalizzato ad evitarne il licenziamento; è dunque possibile un accordo che, ai soli fini di evitare un licenziamento, attribuisca al lavoratore mansioni (e conseguente retribuzione) inferiori a quelle per le quali era stato assunto o che aveva successivamente acquisito.
La sentenza della Suprema Corte si fonda sul principio di "tutela dell'interesse prevalente", secondo cui l'interesse del lavoratore a mantenere il proprio posto di lavoro è prevalente su quello tutelato dall'art. 2103 c.c. Ma perché il patto di demansionamento sia valido, spiegano sempre i giudici, non è sufficiente né che la richiesta di accordo provenga dal lavoratore (il quale, in questo modo, non "subisce" il demansionamento, ma anzi se lo auspica) né che il patto di demansionamento si sia instaurato sulla base di un generico rischio di licenziamento. Occorre anche provare l'esistenza delle condizioni che avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza di accordo, e tale prova spetta al datore di lavoro.
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